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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
   
33
 1-7 Set.

  2006
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Editoriale

Nuova ocm vino, una rivoluzione necessaria
Gabriele Canali

Alle condizioni normative attuali il settore è incapace di adattarsi con modalità e tempi coerenti all’evoluzione dei consumi sia nei Paesi europei, sia nel resto del mondo. La liberalizzazione degli impianti, che presenta rischi ma anche opportunità, dovrebbe essere gestita con gradualità

Alla fine dello scorso mese di giugno la Commissione europea ha presentato una serie di valutazioni preliminari su diverse ipotesi di riforma per l’organizzazione comune di mercato del vino. Tra le quattro ipotesi formulate, quella di una riforma radicale dell’ocm è presentata come preferibile e, in questo senso, anche la prima discussione preliminare sul tema tra ministri dell’agricoltura, svoltasi alla fine di luglio, sembra averlo confermato. I cambiamenti proposti sono radicali e intendono riavvicinare i produttori al mercato, nel bene e nel male.
In una prima fase si ipotizza un programma di espianto volontario finanziato per circa 400.000 ha, pari al 12,5% circa della superficie totale vitata dell’Ue (3,2 milioni di ettari nel 2005). Scopo di questa misura sarebbe quello di ridurre sensibilmente e rapidamente la situazione di surplus produttivo, ormai cronico, non risolto in alcun modo dalle varie distillazioni, comprese quelle di crisi, degli ultimi anni. Allo stesso tempo si propone l’eliminazione praticamente di tutte le forme di distillazione, degli aiuti per i mosti e i concentrati (compensata dall’eliminazione della possibilità di utilizzo dello zucchero), mantenendo peraltro la possibilità di introdurre misure di vario tipo, ma a livello nazionale, per affrontare le eventuali crisi di mercato o produttive. In una seconda fase si giungerebbe all’eliminazione dei diritti di impianto e quindi alla deregolamentazione completa dei nuovi impianti.
Una riforma radicale dell’ocm è sicuramente necessaria e non solo perché ormai questa del vino è, assieme a quella dell’ortofrutta, l’unica ocm ancora non riformata. La crisi, ormai strutturale, denuncia chiaramente l’incapacità del settore di adattarsi, nelle condizioni normative attuali, con modalità e tempi coerenti con l’evoluzione dei consumi sia dei Paesi europei sia del resto del mondo. Le varie forme di distillazione rappresentano ormai uno sbocco troppo «normale» per quote eccessive di vino, e non solo di quello comune da tavola, e ciò è un chiaro quanto inaccettabile segnale di squilibrio. Non v’è dubbio, quindi, che una riduzione delle superfici vitate sarebbe non solo utile ma anche inevitabile, se si pensa a un nuovo contesto senza i precedenti sistemi di sostegno. Se tale riduzione avvenisse con un incentivo economico ragionevole si potrebbero accelerare i tempi dell’aggiustamento e coprire una parte dei costi dei viticoltori.
La seconda fase, quella della liberalizzazione degli impianti, è certamente ancor più rivoluzionaria per il settore e destinata, se approvata, ad avere un effetto molto incisivo ma duplice.
Da un lato ciò farà diminuire i costi di impianto e consentirà un recupero di competitività in termini di costi di produzione. Dall’altro, la deregolamentazione, potrebbe comportare una crescita «eccessiva» degli impianti con l’aumento degli squilibri tra un’offerta crescente e una domanda che complessivamente è in diminuzione, specie sul mercato europeo. Se è vero, infatti, che il mercato sarebbe certamente in grado di trovare un suo equilibrio, è altrettanto vero che ciò potrebbe determinare, specie nel caso di cicli di produzione poliennali, crisi non brevi e di non facile soluzione.
Si pensi alla situazione che sta attraversando la viticoltura australiana, dopo il grande boom di impianti e di esportazioni sul piano internazionale: per effetto degli eccessi di produzione del 2005 e del 2006, il 40% dei viticoltori rischierebbe il tracollo finanziario. Posto che la liberalizzazione degli impianti è da considerarsi comunque positiva nel lungo periodo, sarebbe opportuno procedere con gradualità: i detentori di diritti, ad esempio, potrebbero vedere riconosciuta la possibilità di incrementare le loro superfici vitate di una piccola quota percentuale all’anno per i primi anni, almeno cinque, prima della completa deregolamentazione.
Ciò permetterebbe agli operatori di analizzare, prima della liberalizzazione completa degli impianti, gli effetti del nuovo aumento dell’offerta che si verificherebbe dopo gli iniziali effetti positivi dovuti al programma di estirpazioni finanziate. I modi e i tempi, in questo caso, possono fare la differenza tra una deregolamentazione di successo e un fallimento. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la competitività del vino europeo, e di quello italiano in particolare, non è tanto determinata da minori costi di produzione quanto piuttosto da strategie di differenziazione di prodotti vincenti e da adeguate capacità organizzative, commerciali e di marketing. Quindi è soprattutto su questi punti che si dovrebbe agire, in modo sostanziale e incisivo, con le risorse liberate dalla riforma e rese disponibili a livello nazionale (enveloppe nazionale). Su questo terreno anche i temi relativi alla modifica delle pratiche enologiche e delle etichettature non sono meno rilevanti.
 

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