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Nuova ocm vino, una rivoluzione necessaria |
Alle condizioni normative attuali il settore è incapace di adattarsi
con modalità e tempi coerenti all’evoluzione dei consumi sia nei Paesi
europei, sia nel resto del mondo. La liberalizzazione degli impianti, che
presenta rischi ma anche opportunità, dovrebbe essere gestita con gradualità
Alla fine dello scorso mese di giugno la Commissione europea ha
presentato una serie di valutazioni preliminari su diverse ipotesi di
riforma per l’organizzazione comune di mercato del vino. Tra le quattro
ipotesi formulate, quella di una riforma radicale dell’ocm è presentata come
preferibile e, in questo senso, anche la prima discussione preliminare sul
tema tra ministri dell’agricoltura, svoltasi alla fine di luglio, sembra
averlo confermato. I cambiamenti proposti sono radicali e intendono
riavvicinare i produttori al mercato, nel bene e nel male.
In una prima fase si ipotizza un programma di espianto volontario finanziato
per circa 400.000 ha, pari al 12,5% circa della superficie totale vitata
dell’Ue (3,2 milioni di ettari nel 2005). Scopo di questa misura sarebbe
quello di ridurre sensibilmente e rapidamente la situazione di surplus
produttivo, ormai cronico, non risolto in alcun modo dalle varie
distillazioni, comprese quelle di crisi, degli ultimi anni. Allo stesso
tempo si propone l’eliminazione praticamente di tutte le forme di
distillazione, degli aiuti per i mosti e i concentrati (compensata
dall’eliminazione della possibilità di utilizzo dello zucchero), mantenendo
peraltro la possibilità di introdurre misure di vario tipo, ma a livello
nazionale, per affrontare le eventuali crisi di mercato o produttive. In una
seconda fase si giungerebbe all’eliminazione dei diritti di impianto e
quindi alla deregolamentazione completa dei nuovi impianti.
Una riforma radicale dell’ocm è sicuramente necessaria e non solo perché
ormai questa del vino è, assieme a quella dell’ortofrutta, l’unica ocm
ancora non riformata. La crisi, ormai strutturale, denuncia chiaramente
l’incapacità del settore di adattarsi, nelle condizioni normative attuali,
con modalità e tempi coerenti con l’evoluzione dei consumi sia dei Paesi
europei sia del resto del mondo. Le varie forme di distillazione
rappresentano ormai uno sbocco troppo «normale» per quote eccessive di vino,
e non solo di quello comune da tavola, e ciò è un chiaro quanto
inaccettabile segnale di squilibrio. Non v’è dubbio, quindi, che una
riduzione delle superfici vitate sarebbe non solo utile ma anche
inevitabile, se si pensa a un nuovo contesto senza i precedenti sistemi di
sostegno. Se tale riduzione avvenisse con un incentivo economico ragionevole
si potrebbero accelerare i tempi dell’aggiustamento e coprire una parte dei
costi dei viticoltori.
La seconda fase, quella della liberalizzazione degli impianti, è certamente
ancor più rivoluzionaria per il settore e destinata, se approvata, ad avere
un effetto molto incisivo ma duplice.
Da un lato ciò farà diminuire i costi di impianto e consentirà un recupero
di competitività in termini di costi di produzione. Dall’altro, la
deregolamentazione, potrebbe comportare una crescita «eccessiva» degli
impianti con l’aumento degli squilibri tra un’offerta crescente e una
domanda che complessivamente è in diminuzione, specie sul mercato europeo.
Se è vero, infatti, che il mercato sarebbe certamente in grado di trovare un
suo equilibrio, è altrettanto vero che ciò potrebbe determinare, specie nel
caso di cicli di produzione poliennali, crisi non brevi e di non facile
soluzione.
Si pensi alla situazione che sta attraversando la viticoltura australiana,
dopo il grande boom di impianti e di esportazioni sul piano internazionale:
per effetto degli eccessi di produzione del 2005 e del 2006, il 40% dei
viticoltori rischierebbe il tracollo finanziario. Posto che la
liberalizzazione degli impianti è da considerarsi comunque positiva nel
lungo periodo, sarebbe opportuno procedere con gradualità: i detentori di
diritti, ad esempio, potrebbero vedere riconosciuta la possibilità di
incrementare le loro superfici vitate di una piccola quota percentuale
all’anno per i primi anni, almeno cinque, prima della completa
deregolamentazione.
Ciò permetterebbe agli operatori di analizzare, prima della liberalizzazione
completa degli impianti, gli effetti del nuovo aumento dell’offerta che si
verificherebbe dopo gli iniziali effetti positivi dovuti al programma di
estirpazioni finanziate. I modi e i tempi, in questo caso, possono fare la
differenza tra una deregolamentazione di successo e un fallimento. Non
bisogna dimenticare, inoltre, che la competitività del vino europeo, e di
quello italiano in particolare, non è tanto determinata da minori costi di
produzione quanto piuttosto da strategie di differenziazione di prodotti
vincenti e da adeguate capacità organizzative, commerciali e di marketing.
Quindi è soprattutto su questi punti che si dovrebbe agire, in modo
sostanziale e incisivo, con le risorse liberate dalla riforma e rese
disponibili a livello nazionale (enveloppe nazionale). Su questo
terreno anche i temi relativi alla modifica delle pratiche enologiche e
delle etichettature non sono meno rilevanti.
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