POLITICA |
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Sant’Antonio facci la grazia! |
Le troppe strutture che oggi rappresentano gli interessi degli
agricoltori italiani sono un elemento di debolezza del sistema
Era una giornata fredda e nebbiosa il 17 gennaio scorso.
I blocchi autostradali dei metalmeccanici in sciopero mi consigliarono di
uscire dalla A4 e raggiungere la mia destinazione attraverso le strette, ma
scorrevoli, strade provinciali.
Nonostante le villette e i capannoni di recente costruzione ai lati della
strada, a un tratto il paesaggio mi divenne familiare: ero nei pressi
dell’azienda agricola di Aristide.
Finalmente scorsi tra gli alberi la bassa cascina. Abbandonata la
provinciale mi diressi verso la corte.
Avrei trovato ancora l’amico di tanti anni fa? Ne aveva fatte di battaglie
l’Aristide! Battaglie tecniche si intende. Aveva pian piano rivoltato come
un calzino la vecchia fattoria ereditata dallo zio, creando una bella, e
credo anche redditizia, realtà agricola.
Arrivato sotto il portico lo vidi mentre usciva dalla stalla, pardon, dal
ricovero a cuccette, accompagnato da un sacerdote con la stola. Cosa sarà
successo, mi chiesi preoccupato; se qualcuno sta male, il prete entra in
casa, non in stalla!
Aristide risolse subito il dilemma. Mi riconobbe e mi chiamò da lontano,
invitandomi ad avvicinarmi a lui e al sacerdote.
«Oggi è Sant’Antonio abate, Sant’Antonio del porcello, come diciamo noi, e
come sempre ho fatto benedire gli animali della stalla», esclamò contento
Aristide. «Don Franco benedica anche il mio amico, che viene dalla città».
Fu così che venni associato nella antichissima funzione religiosa agli
animali allevati da Aristide.
Nella mezz’oretta di sosta parlammo di tante cose: soprattutto dei tempi
passati quando avevo avuto modo di assisterlo professionalmente nel salto di
qualità che aveva impresso alla sua azienda.
Ma il futuro? Curioso come sempre, non esitai a chiedergli il suo pensiero
sulle incertezze che in questo primo scorcio del 2006 gravano
sull’agricoltura italiana.
Aristide, che ha miracolosamente mantenuto la saggezza del vecchio
contadino, ha subito circoscritto la risposta ai fatti che interessano lui e
i suoi vicini.
«La situazione è indubbiamente grave e preoccupante, ma c’è ancora la
possibilità di venirne fuori o almeno di continuare dignitosamente nel
nostro mestiere. I problemi che si affacciano ogni giorno sono tanti; il più
immediato mi sembra sia quello delle strutture che dovrebbero difenderci. Le
organizzazioni che ci rappresentano abbandonino ogni velleità di potere e si
mettano a fare ciò per cui sono state concepite: essere i nostri avvocati
nelle battaglie economiche quotidiane».
Nella sua pacata, ma sicura esposizione, Aristide mi ha ancora ricordato che
perfino i segretari delle storiche centrali sindacali italiane, Cgil, Cisl e
Uil per intenderci, hanno riconosciuto sere fa in televisione che è ormai
venuto meno il richiamo politico a questo, quello o quell’altro partito
politico. è ormai giunta l’ora anche per loro di associarsi in un’unica
struttura per meglio affrontare gli importanti problemi vecchi e nuovi che
la concorrenza leale e sleale e le nuove migrazioni di manodopera a livello
planetario stanno creando.
A maggior ragione nel mondo agricolo, oggi ridotto come numero di addetti e
come peso economico globale rispetto al passato, anche se estremamente
ambito dall’industria agroalimentare e dalla grande distribuzione
organizzata, è tempo che vengano riordinate dalle fondamenta le strutture
della rappresentanza professionale e sindacale.
Un tempo la forza di Coldiretti, Confagricoltura e Cia (allora
Federbraccianti) si misurava nel numero di onorevoli e sottosegretari che
riuscivano a produrre a ogni Legislatura. Oggi, invece, tali organizzazioni
dovrebbero venire giudicate per il numero di economisti, di esperti in
diritto comunitario, di specialisti nel commercio estero che sono in grado
di lanciare nelle fornaci del mercato italiano e del commercio
internazionale.
Le troppe strutture che oggi rappresentano e sostengono gli agricoltori
italiani – oltre a risultare più deboli delle corazzate unitarie tedesche,
francesi e olandesi negli organismi sovranazionali, come ad esempio il
Cogeca, o nei gruppi di lavoro e di approfondimento presso le Commissioni Ue
– bruciano parte delle loro energie nello sforzo tutto italiano di mantenere
o imporre una propria leadership. Una guerra tra poveri che oggi non ha più
senso.
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